Questo articolo è stato pubblicato su Enquire.
David Sylvian da tempo non è più il raffinato cantore dell’artificiosità degli anni Ottanta. E, nonostante la delusione che molti provano ad ogni sua nuova uscita, non ha nessuna intenzione di ritornare ad esserlo, nemmeno per un’istante. Il suo percorso artistico è sempre vissuto sotto l’insegna dell’evoluzione, fin da quando ha portato i Japan (insieme a suo fratello Steve Jansen e ad uno dei migliori bassisti di tutti i tempi, il recentemente scomparso Mick Karn) da territori glam-punk (pur se molto particolari) alla band perfetta per imbrattarsi di poetica e dandismo senza scendere necessariamente nelle citazioni morrisseyiane o nella goffa decadenza di certo gothic rock di quarta categoria.
Dai Japan alla carriera solista il passo è stato doveroso. Se le frizioni tra Sylvian e il resto della band furono sicuramente tra i motivi di scioglimento del gruppo, alla base c’era però anche una certa voglia in Sylvian di far vedere che lui non era l’ennesima prima donna del new romantic, pronta a sparire al primo cambio di tendenza. Per dimostrare ciò aveva però bisogno di spazio, artistico soprattutto. Che individuò nel territorio delle musiche di confine, negli esperimenti con nastri e frippertronics (“The First Day”, “Darshan” con Robert Fripp), nel coinvolgimento di artisti lontani anni luce dal mainstream musicale, come Holger Czucay dei Can (“Plight and Premonition”, “Flux and Mutability”) o Ryuchi Sakamoto, del quale firmò il testo di “Forbidden Colours”, celebre tema dal film “Furyo” (meglio conosciuto come “Merry Christmas, Mr Lawrence”).
Il culmine della fase sperimentale del cantante inglese è quella che stiamo vivendo ora, iniziata nel 2003 quando, spiazzando tutto e tutti, decise di incidere “Blemish” con uno dei più grandi teorici dell’improvvisazione non idiomatica, Derek Bailey, straordinario chitarrista che donò all’album uno spessore di non facile comprensione. Fu l’inizio dell’amore tra Sylvian e l’improvvisazione musicale. Amore che nel 2009 ha portato a “Manafon”, disco se possibile ancora più “in là” nell’osare nuove soluzioni musicali e applicarle al cantuautorato. Un disco che rappresentava la sintesi perfetta di due mondi che si incontravano: quello dei testi e della voce di David Sylvian e quello dei tessuti musicali improvvisati, con il coinvolgimento in una lunga session (poi editata in studio) tra svariati musicisti rappresentanti di più di una generazione di improvvisatori musicali: dai “vecchi” Keith Rowe, Eddie Prevost e Evan Parker ai più giovani Fennesz, John Butcher oltre alla scena lowercase e onkyo giapponese con la presenza di Sachiko M e Tashimaru Nakamura. Continue reading →