Ho scritto in un post che quest’anno non avrei compilato la consueta playlist di fine anno dei migliori dischi, ma che avrei preferito suggerire qualcosa di tanto in tanto. Oggi è uno di quei momenti: ho recuperato il fantastico progetto uscito con il nome di Thumbscrew che vede coinvolti personaggi di primo piano della frangia più sperimentale del jazz: Mary Halvorson, Michael Formanek, Tomas Fujiwara. Pubblicato dalla Cuneiform, è un disco che non stanca mai (anche) perché è uno di quei pochi dischi provenienti dallo stantìo ambito del jazz che spostano un po’ più in là i confini del genere.
Spesso si legge — a ragione, per altro — che il jazz è uno dei generi più statici e conservatori che ci siano, incapace di evolversi ma abile nel ruotare intorno al suo ombelico in un’orda di autocompiacimento che coinvolge un po’ tutti: musicisti e ascoltatori. L’ho fatto anche io più di una volta, anche recensendo testi che vengono considerati dagli appassionati dei veri e propri manifesti. Questa volta sono contento di essere smentito. Qui abbiamo chitarra, basso e batteria: e tanto basta per far storcere il naso ai puristi (non ci sono i fiati!). Ma tanto basta anche a me per godere di un lavoro unico, dove la schizofrenia dell’improvvisazione va a braccetto con improvvisi squarci melodici.
Il disco è di nicchia, e non lo troverete citato nel giro che conta. Non è indie né hipster né nessun altra delle cose che leggete ogni giorno, da almeno un mese, nelle varie classifiche di fine anno. In un’ipotetica mia classifica questo starebbe tra i primi 5, non saprei dire in che posizione proprio perché quest’anno mi sono voluto sgravare dal compito. Tanto basti, mi piace pensare, per dargli un ascolto: