Domenica 5 marzo 1876, prima domenica di Quaresima, a Milano viene pubblicato il primo numero del Corriere della Sera (datato 5-6 marzo). Direttore è Eugenio Torelli Viollier, trentaquattrenne napoletano che anni dopo Gaetano Afeltra avrebbe descritto sulle stesse pagine del quotidiano milanese come «compassato, freddo, dalla parola misurata: pare più un inglese che un meridionale». Quattro pagine, di cui una di pubblicità. Tremila copie di tiratura, tre redattori ai quali si aggiungeva un impiegato e un fattorino, il quotidiano viene venduto a cinque centesimi in città (sette fuori da Milano).
Qui sotto ripubblico il primo editoriale, uscito non firmato e quindi attribuibile a Torelli Viollier, intitolato semplicemente «Al pubblico». Rivolgendosi direttamente al lettore, il direttore traccia quelle che sono la linea politica del giornale («Siamo conservatori e moderati») e le sue intenzioni («Se c’è cosa che abbiamo in odio, è il giornale a tesi», quello «che ha due sole suonate, una in maggiore per esaltare i meriti de’ suoi amici, una in minore per gemere su’ demeriti degli avversari»).
Pubblico, vogliamo parlarti chiaro. In diciassette anni di regime libero tu hai imparato di molte cose. Oramai non ti lasci gabbare dalle frasi. Sai leggere fra le righe e conosci il valore delle gonfie dichiarazioni e delle declamazioni solenni d’altri tempi. La tua educazione politica è matura. L’arguzia, l’esprit ti affascina ancora, ma l’enfasi ti lascia freddo e la violenza ti dà fastidio. Vuoi che si dica pane al pane e non si faccia un trave d’una festuca. Sai che un fatto è un fatto ed una parola non è che una parola, e sai che in politica, più che nelle altre cose di questo mondo, dalla parola al fatto, come dice il proverbio, v’ha un gran tratto. Noi dunque lasciamo da parte la rettorica, e veniamo a parlarti chiaro.
Noi siamo conservatori. Un tempo non sarebbe stato politico, per un giornale, principiar così. Il Pungolo non osava confessarsi conservatore. Esprimeva il concetto chiuso in questa parola con una perifrasi. Ora dice apertamente: «Siamo moderati, siamo conservatori». Anche noi siamo conservatori e moderati. Conservatori prima, moderati poi. Vogliamo conservare la Dinastia e lo Statuto, perché hanno dato all’Italia l’indipendenza, l’unità, la libertà, l’ordine. In grazia loro si è veduto questo gran fatto: Roma emancipata da’ Papi che la tennero durante undici secoli. In grazia loro vediamo questi fatti singolari: un cardinale che paga la ricchezza mobile, una chiesa protestante presso San Giovanni Laterano, un re al Quirinale. In grazia loro si è udito Francesco Giuseppe d’Austria dire a Vittorio Emanuele: «Bevo alla prosperità dell’Italia», e Guglielmo di Prussia: «Bevo all’unione de’ nostri popoli». Noi dunque siamo conservatori.